“Opinioni di un clown” di Heinrich Boll

Luciana De Palma
Dalla bocca di un clown feroci accuse rivolte ad una società che ha smarrito ogni valore
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Con paradossale prodigio la rivelazione della verità, che è tale solo quando è realmente scomoda, è affidata ad un clown che non può resistere all’urgente bisogno di rompere gli argini e di devastare, con le sue parole e le sue accuse, ogni cosa che fino ad allora è cresciuto come la gramigna tra le spighe del frumento.

Il giovane Hans vive a Bonn, vive esercitando il mestiere di attore comico, vive con irriducibile realtà ogni spasmo della sua anima che non può evitare ai suoi passi di affossarsi nella melma della via che, vivendo, percorre, poiché l’estrema sensibilità e la vorace propensione alla riflessione sulla vita e sulle sue crepe lo inducono ogni volta a considerazioni profonde e nello stesso tempo inzuppate di autocommiserazione.

L’ultimo dei fallimenti gli si è parato dinnanzi come un ostacolo improvviso che fa sbandare un’auto, inducendola poi a schiantarsi contro un albero; anche Hans si è schiantato, e senza possibilità di guarigione, nel momento in cui Maria, la donna con cui viveva, lo ha abbandonato.

All’inizio la loro storia, benché osteggiata dalla comunità cattolica di cui Maria faceva parte e che Hans, invece, rigettava senza mezzi termini, era stata come un’idilliaca visione, dalla cima di un monte, su un romantico orizzonte che orli dorati e scarlatti del tramonto ornano come antichi e preziosi merletti.

Hans allora prende coscienza della sua parte di responsabilità nella decisione di Maria di sposare un altro: egli non ha voluto firmare, ostinandosi come un condannato al rogo che fino all’ultimo resiste alla tentazione dell’abiura, una carta con cui avrebbe dovuto garantire la formazione cattolica ai figli che sarebbero nati dalla sua unione con Maria.

La repulsione verso un atto perversamente ipocrita lo ha indotto a scegliere tra l’amore e la salvezza morale della sua solitaria e incorruttibile anima; la sua scelta, dagli esiti dolorosi, ha arpionato la sua esistenza ad un uncino di infinita e sofferta rassegnazione.

Con la medesima inflessibilità Hans affronta suo padre, rifiutandosi di accettare il sussidio che, viste le difficoltà economiche del figlio, è venuto ad offrire. Lo ripugna quella dimostrazione di boriosa quanto inutile generosità: perché mai suo padre lo raggiunge adesso, dopo tre anni di completa indifferenza, per dargli quello che in tutto il tempo in cui Hans ha vissuto nella casa paterna gli è stato ferocemente e rozzamente negato? La spilorceria di sua madre, gli rinfaccia Hans, è stata tale da ridurlo, durante l’infanzia, ad un continuo stato di fame.

Anche di suo fratello Leo, che inizialmente gli aveva mostrato comprensione e solidarietà, Hans smette di fidarsi: questo accade quando si rende conto che la somma irrisoria che Leo stava per cedere nelle sue mani altro non è che un’elemosina da parte di Maria e di suo marito i quali, venuti a conoscenza della miseria in cui versa il clown, utilizzano Leo come intermediatore tra loro e Hans.

Anche in questo caso la reazione del protagonista è brutale e irreversibile: rifiuta ogni aiuto e ricade nella sua tormentata coerenza. Il lamento del clown non è altro che il marchio di una sconfitta e di una sconfinata sottomissione all’immutabilità di una società che, pur modificandosi in superficie, resta plasmata sui canoni irreversibili della ritualità ottusa, dei pregiudizi oscenamente nutriti e delle ambiguità più diaboliche.

La libertà intellettuale non può prescindere dall’estrema solitudine in cui, chi la vive come il più profondo atto di onestà verso gli altri e verso la vita, immancabilmente finisce: le falsità dogmatiche e le presunzioni di esattezza stritolano ogni sguardo che faticosamente tenta di sollevarsi per immergersi nell’immensità azzurra del cielo.
Non resterebbe perciò altro che ingoiare tutta l’amarezza dell’incomprensione altrui e dell’altrui disprezzo.

Anche se l’ultimo tentativo di Hans, per riscattarsi dalla pena del suo vivere, lo induce a non tagliare definitivamente il filo a cui la sua anima, pur stanca e avvilita, ancora si aggrappa.

“Tutti sanno che un clown dev’essere malinconico per essere un buon clown, ma che per lui la malinconia sia una faccenda seria da morire, fin lí non arrivano.”

giovedì 7 Maggio 2015

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